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(Non) devi dare tutta te stessa


 

(Non) devi dare tutta te stessa

RegenerAkcja

Poland

 

Mi chiedo spesso come si possa trovare un minimo di equilibrio in questa vita frenetica. Come evitare di uscire a pezzi dalla frenesia di dover fare sempre di più e meglio? Come rigenerarsi e non finire per esaurirsi tra la realtà disconnessa creata dalla pandemia e la necessità di lottare ancora e ancora per difendere gli stessi diritti? So che ti fai spesso queste domande. Pensando al burnout e a uno spazio per rigenerarsi, mi viene in mente il nome di Natalia Sarata. L'ho incontrata alcuni anni fa quando stava lavorando a Herstories (progetto dedicato a evidenziare il ruolo, spesso dimenticato, delle donne nella scena culturale di Cracovia all'inizio del XX secolo).

- Per molti anni sono stata impegnata in attività femministe, ho lavorato con donne, ragazze, leader delle comunità locali nelle campagne, nei piccoli paesi. Mi sono dedicata al cosiddetto attivismo di strada, organizzando manifestazioni, picchetti, proteste, ma anche a cose che generalmente non vengono percepite come attivismo, come il coordinamento di progetti, la raccolta fondi, la gestione dei documenti contabili, il lavoro di ufficio, l'educazione - racconta Sarata.

Tutto è iniziato nel 2002, quando Sarata è entrata a far parte di una delle organizzazioni femministe di Cracovia, con grande entusiasmo, perché aveva appena scoperto che ciò che era e il modo in cui la pensava rientravano perfettamente nei canoni del femminismo. E l'entusiasmo è una risorsa che ogni organizzazione cerca incessantemente. Purtroppo, il tutto si esaurisce spesso dopo qualche anno, con le persone che se ne vanno esauste e demotivate.

- Allora, né nella mia prima organizzazione né in nessun'altra organizzazione, compresi i gruppi che ho contribuito a fondare, non una singola volta in quei primi 15 anni di attivismo ho sentito dire: “non devi dare tutta te stessa”. “Non abbiamo bisogno del tuo sacrificio”. Al contrario, molti di noi avevano sentito e assimilato la storia che bisogna sacrificarsi per l'obiettivo - dice Sarata.

E questo prima o poi porta al burnout. Christina Maslach, professoressa di psicologia all'Università della California, Berkeley, definisce il burnout come una sindrome psicologica di "esaurimento emotivo, spersonalizzazione e atrofizzazione dei sentimenti legati alla realizzazione personale sul lato lavorativo". Sostiene inoltre che il burnout non è un fallimento personale, ma la conseguenza delle condizioni in cui operiamo.

- Il burnout non è colpa tua. Ti muovi in un sistema programmato per sovraccaricare le persone. Se lavori per i diritti umani e l'uguaglianza, se cerchi di mettere un freno alla violenza sistemica, per questo sistema è ancora meglio se perdi entusiasmo, se interi collettivi perdono forza e momento - aggiunge Sarata.

Tuttavia, non se ne parla mai in questi termini. Il burnout e' visto come l'ennesima prova della nostra debolezza, a cui si può porre rimedio con una corretta gestione del tempo, con pillole miracolose e rimettendosi in riga. Come suggeriscono Emily e Amelia Nagoski nel libro Burnout: The Secret to Unlocking the Stress Cycle: "Le riviste ci raccontano che ci basta bere dieci frullati al giorno per sentirci benissimo e stare benissimo, perché i nostri figli dicano "per favore" e "grazie", e il nostro capo ci dia quella promozione. E se niente di tutto questo succede, è perché abbiamo sbagliato qualcosa nel bere i dieci frullati, non è certamente a causa di qualche stortura nel sistema".


Nate per donare

- Quello che mi sembra un grosso problema, uno dei tanti nel terzo settore e in Polonia in generale, è l'adozione in toto del modello di business dal mondo imprenditoriale. Le organizzazioni sociali devono apparire professionali, devono avere posizioni lavorative, competenze, definizione degli obiettivi, strumenti di valutazione a 360 gradi. I diritti del lavoro sono estremamente importanti, lo sono ovviamente anche le norme sul lavoro e lavorare in una ONG, retribuiti o meno, è un lavoro. Ma quel modello di business riguarda qualcos'altro: l'efficienza. In quel modello, dobbiamo professionalizzarci così tanto che smettiamo di notare gli altri attivisti, smettiamo di prenderci cura delle relazioni e delle altre persone. Perché richiede tempo. E noi dobbiamo essere efficienti, senza perdere tempo in ciò che è considerato insignificante - dice Sarata.

Se abbiamo bisogno di rilassarci, lo facciamo durante un viaggio strategico mentre discutiamo dei piani per il futuro. Se otto ore di lavoro non sono sufficienti per completare il compito, impieghiamo altre tre ore una volta a casa. C'è sempre tanto da fare. Il mondo ha bisogno di noi.


- Ma se tra un anno ci prende un infarto tutte queste cose importanti non succederanno. Sopportiamo enormi costi in termini di salute e relazioni. Persone indaffarate, esauste e malate non producono cambiamenti positivi. In questo modello di impegno, noi e i nostri capi ce lo ricordiamo troppo raramente - osserva Sarata.

Il capitalismo dice che quando riposi, sei inefficiente. Viviamo in un mondo in cui lavorare dalle 9 alle 17 è un concetto obsoleto. Adesso, puoi monetizzare qualsiasi momento o almeno convertirlo in nuovi like. Come afferma Jenny Odell in How to Do Nothing. Resisting the Attention Economy, “Vedo (...) una colonizzazione del sé da parte delle idee capitaliste di produttività ed efficienza". E aggiunge: "Niente è più difficile che non fare nulla. In un mondo in cui il nostro valore è determinato dalla nostra produttività, molti di noi scoprono che ogni singolo attimo viene catturato, ottimizzato o appropriato come risorsa finanziaria dalle tecnologie che utilizziamo quotidianamente. Affidiamo il nostro tempo libero alla valutazione numerica, interagiamo con versioni algoritmiche di noi stessi e costruiamo e perpetuiamo marchi personali. (…) Eppure aleggia in noi una certa sensazione di nervosismo, di essere sovrastimolati e incapaci di sostenere il filo dei pensieri. Anche se può essere difficile da afferrare prima che scompaia dietro la cortina di distrazioni, questa sensazione è in effetti pressante. Siamo ancora consci che gran parte di ciò che dà significato alla nostra vita deriva da coincidenze, interruzioni e incontri fortuiti: il "tempo libero", che una visione meccanicistica dell'esperienza cerca di eliminare".

D'altra parte, nel loro libro le Nagoski espandono il concetto di Human Giver Syndrome (Sindrome del donatore umano), che definiscono come "la convinzione contagiosa che uno abbia l'obbligo morale di dare ogni goccia della tua umanità a sostegno degli altri, a qualunque costo". Facendo riferimento al libro Down Girl: The Logic of Misogyny della filosofa Kate Manne, mostrano le conseguenze della sindrome del donatore umano in vari ambiti della nostra vita. Non senza ironia, segnalano che la sindrome si verifica solo per un sesso. Indovinate quale.


- È l'intero concetto di vera donna, la madre polacca, che devi rispecchiare anche se non hai un figlio. Devi sempre essere in modalità assistenza. Viviamo in una società basata sul lavoro non retribuito delle donne, sfruttando le donne tanto quanto la natura e gettando la responsabilità del mondo sulle loro spalle - aggiunge Sarata.


Non me ne rendevo conto

Come va a finire?

- Per molto tempo non mi sono resa conto che qualcosa non andava. Non ho realizzato quando ho smesso di andare dai dottori, ho cancellato incontri e visite perché c'era sempre qualcosa di più importante da fare. Non ho realizzato quando ho iniziato a perdere amici. Non ho realizzato quando la mia relazione è finita. Ha iniziato a capire molto lentamente, quando sono diventata cinica, quando ho iniziato a pensare che quello che facevo non aveva senso, che qualunque cosa tentassi, il mondo non sarebbe cambiato comunque. Che non valesse la pena mettersi in gioco o raccontare alla gente che il cambiamento è possibile, perché non è vero. Alla fine quello che mi ha costretto a rivedere le mie priorità è stato un messaggio di un'amica che mi ha contattato perché aveva molto bisogno di incontrarmi. Ho aperto la mia agenda e le ho detto: Marta, ho tempo tra quattro mesi, tra le 2 e le 3 del 7 luglio. Mi ha risposto: stai scherzando, spero! - racconta Sarata.

Secondo Maslach, nel burnout prima si manifesta l'esaurimento emotivo: scoraggiamento nel lavoro, diminuzione dell'attività, pessimismo, irritabilità, tensione, ma anche cambiamenti somatici come sensazione costante di stanchezza, mal di testa, difficoltà a dormire, frequenti malesseri e problemi digestivi. Lo stage successivo è la spersonalizzazione: diventiamo indifferenti e ci allontaniamo dai problemi degli altri, trascorriamo meno tempo con loro, li biasimiamo per i fallimenti sul lavoro. Appare il cinismo. Infine, il senso di realizzazione personale si dissolve. Smettiamo di credere nelle nostre capacità, ci sentiamo incompetenti, non siamo in grado di barcamenarci in condizioni difficili. Le fasi possono verificarsi una dopo l'altra, parallelamente o in un diverso ordine. Alla fine, però, portano a problemi di salute, fisici e mentali, abbassano la nostra efficienza e alziamo bandiera bianca anche su quella che è la nostra missione principale.

- Quando ho capito quanto la situazione fosse seria, ho progettato per la fine dell'anno, una volta finito il mio progetto in corso, in realtà i tre progetti, di risparmiare un po' di soldi e fare una pausa di tre mesi. Alla fine c'è voluto un anno, tanto mi è servito per sopravvivere e riprendermi. Solo da poco ho finito di saldare i debiti presi allora per poter lasciare il lavoro e non farmi coinvolgere in quello che facevo prima - confessa Sarata.

Una lunga pausa è uno dei modi possibili, anche se solo pochi di noi possono permetterselo. Un anno sabbatico, isolamento volontario, tempo e spazio per ridefinire le priorità e, soprattutto, per riposare. Le sorelle Nagoski riferiscono che i dati scientifici suggeriscono che dovremmo riposare il 42% del nostro tempo, sonno compreso. Possiamo sconvolgere queste proporzioni per un po' di tempo, ma prima o poi il nostro corpo e la nostra mente reclameranno le loro necessità. Durante l'anno sabbatico, Sarata ha trascorso due settimane in un corso a Eco-Dharma sul burnout nell'attivismo. Lì è riuscita a dare un nome al suo stato, ai sintomi che la tormentavano. Con il tempo si è trasferita a Varsavia, non per lavoro o attivismo, ma per amore. Nel corso di quell'anno si era convinta che non sarebbe più tornata nel settore, che non aveva più nulla da dare, si sentiva vuota. A realizzato che il conto salato che ha pagato per lavorare oltre misura non è nulla di unico: la gente lo paga regolarmente e nel movimento in cui lavora ci sono ancora troppe poche voci che dicono: “Non devi andare a tutte le manifestazioni”. “Non è necessario inviare questa o quella domanda”. Non devi nulla. Il tuo attivismo potrebbe essere un anno di cura di te stessa. In un mondo intriso di capitalismo, il tuo attivismo potrebbe essere sospendere l'efficienza. Non c'è nemmeno spazio per dirsi che uno è debole, che non ce la fa, che non vuole, che non ci crede. Così Sarata ha deciso di crearlo, questo spazio. Per cambiare tutto il movimento, non per rimettere in sesto gli individui. Non siamo noi a non funzionare.


RegenerAkcja

All'inizio del 2017, Sarata ha cominciato a condurre incontri per attivisti, incoraggiando il dialogo anche su temi difficili. Nel tempo, gli incontri si sono trasformati in una fondazione chiamata RegenerAkcja, che offre uno spazio per gli attivisti - soprattutto quelli che lavorano per l'uguaglianza e i diritti umani - per incontrarsi, stare con altre persone, per ammettere che non ne hanno più, che sono terribilmente stanchi, che ne hanno abbastanza. Che non vogliono più farlo e allo stesso tempo che l'attivismo è una parte essenziale della loro identità e non sanno come andare avanti.

- Creo uno spazio, fisico o online, dove gli attivisti si siedono uno di fronte all'altro o si sdraiano su dei materassi, cercano una posizione che sia comoda per loro e dicono cose del genere o ascoltano altre persone che lo dicono, alienandosi dal luogo dove si deve essere produttivi, efficaci, si deve avere successo, si devono ottenere risultati o si deve lavorare allo sfinimento, indossare l'armatura di teflon e travestirsi da supereroe. Nei gruppi di sostegno per attivisti esausti che guido, non ci incontriamo per organizzare qualcosa - questo è il principio alla base di questi incontri. Li chiamiamo Wspólna [Comune]. Una causa comune, un luogo comune, un materasso in comune, un gruppo in comune, esperienza, stanchezza... si può leggere in modi diversi, ma in generale è a proposito di comunità. Facciamo lo stesso in vari seminari, brevi o lunghi che siano. Costruiamo una comunità in cui possiamo fidarci l'uno dell'altro e parliamo di cose di cui a volte è difficile parlare nei nostri gruppi di origine: senso di impotenza, conflitti, regole di efficienza, corpo e relazioni. Costruiamo una comunità partendo da zero, impariamo a farlo - aggiunge Sarata.

Comunità, relazionarsi è un bisogno fondamentale dell'essere umano. Come sottolineano le sorelle Nagoski, "È una condizione normale e sana dell'umanità, avere bisogno di altre persone che ci ricordino che possiamo fidarci di noi stessi, che possiamo essere teneri e compassionevoli con noi stessi come saremmo, al meglio di noi stessi, verso qualsiasi bambino sofferente. Avere bisogno di aiuto per sentirsi "abbastanza" non è una patologia; non è "dipendenza". (…) La cura per il burnout non è "prendersi cura di sé"; è che tutti si prendano cura l'una dell'altro".

Durante gli incontri e i laboratori organizzati da RegenerAkcja, prendersi cura di se stessi e prendersi cura l'uno dell'altra si manifesta nello stare insieme, nell'ascolto e nel considerare varie questioni per le quali non c'è abbastanza tempo nel trambusto quotidiano. Tra questi ci sono i bisogni.

- Prendiamo l'elenco dei bisogni di Maslow o Rosenberg - non reinvento la ruota - e ne parliamo. Alcuni di questi bisogni sono universali, altri dipendono dalla persona. Consideriamo anche questioni sistemiche. Parliamo di cosa significhi essere “educate all'attivismo” verso la propria famiglia, verso il proprio partner, verso la società, cosa significhi essere una donna in un mondo basato sul patriarcato - dice Sarata.

Si parla di definire dei limiti, di rifiuto, dei sintomi del burnout, sia a livello del sistema nervoso sia nel costruire relazioni o nella spiritualità. C'è molto lavoro sulla respirazione, con il corpo, i partecipanti riscoprono la loro testa in senso fisico, fatta di pelle e capelli, e non solo di pensieri. Parlano di situazioni che pensavano fossero peculiari e limitate alla loro persona e che invece scoprono essere un'esperienza comune alla maggior parte delle persone nella stanza. Parlano della paura, del costo del coinvolgimento personale, soprattutto tra coloro che lavorano sui diritti umani o sulla propria identità. Gran parte dei partecipanti sono donne o persone socializzate per essere donne.

- Questo deriva in primo luogo dal fatto che il settore dell'attivismo è a forte preponderanza femminile, perché le donne devono prendersi cura del mondo, prendersi cura dei bisognosi. - spiega Sarata - In secondo luogo, a causa della socializzazione delle donne, queste hanno meno difficoltà a dire che sono stanche, che non ce la fanno. Nella società c'è un modello di attivista maschio che appare come un cavaliere d'acciaio, un soldato sulle barricate, che è indistruttibile e deve dimostrare il suo coraggio ed eroismo. Quindi gli uomini vengono meno spesso.


Sarata lavora anche con organizzazioni che vogliono introdurre profondi cambiamenti strutturali per prevenire il burnout. Un lavoro del genere richiede però una grande apertura da parte dell'organizzazione e della persona al vertice, il coraggio di puntare i riflettori su ciò che non funziona.

- Tra le altre cose, i problemi sorgono in quei team che funzionano costantemente in assetto di emergenza, ma anche in quei team che sono gestiti da persone esaurite, da coloro che non badano alle relazioni personali perché non hanno più la forza per farlo, coloro che sono estremamente ciniche, per le quali le persone - questa è una delle caratteristiche del burnout - non sono più individui con le loro storie, iniziano ad essere solo strumenti e modi per raggiungere alcuni obiettivi, come gli obiettivi aziendali. Per le quali parlare di come le persone collaborano è solo una perdita di tempo prezioso. O coloro che non riescono a discutere di alcune situazioni e nascondono i conflitti e le difficoltà sotto il tappeto - spiega Sarata.

Il lavoro con queste organizzazioni spesso inizia con temi legati alla prevenzione di discriminazione, molestie e mobbing, ma prima o dopo viene fuori che ci sono anche esigenze legate all'attenzione al team, all'equilibrio o alla prevenzione del burnout. Spesso la stessa cultura alla base dell'organizzazione crea uno luogo in cui le persone si esauriscono. Ad esempio, i principi di comunicazione sono importanti e dovrebbero essere costruttivi e orientati all'apprezzamento piuttosto che alla competizione e alla critica. È importante vedere l'organizzazione non solo come un luogo di lavoro, ma anche come una comunità in cui ci si possa rigenerare dopo l'estenuante lavoro di attivista. Tale gruppo/organizzazione/iniziativa dovrebbe essere lo stampo del nuovo mondo a cui miriamo.

- Possiamo creare comunità che siano variegate, egalitarie, rispettose, emancipate se ciò che facciamo qui e ora è auto-sfruttamento, se trascuriamo le necessità nostre e degli altri, se non ci ascoltiamo a vicenda, se ci focalizziamo sugli errori nostri e degli altri, se manca attenzione, se c'è sacrificio? Gli strumenti che utilizziamo riflettono il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo? - si chiede Sarata.


Riposare è importante perché tu sei importante

Come cambiare questa situazione? Come crearsi quello spazio per prevenire il burnout, per creare il mondo dei nostri sogni qui e ora? Vale la pena partire col ... dormire. Come ricordano le sorelle Nagoski: “Tutto il nostro corpo, compreso il nostro cervello, lavora sodo mentre dormiamo, per svolgere compiti vitali che possono essere portati a termine al meglio quando non siamo li ad interferire. Molto semplicemente, non siamo completi senza dormire. (…) Una persona sveglia da diciannove ore (diciamo che si è svegliata alle 7 del mattino e ora sono le 2 del mattino) è rallentata nelle sue funzioni cognitive e motorie come una persona che è in stato di ebbrezza. Persone che hanno dormito solo quattro ore la notte precedente sono ugualmente rallentate, così come quelle che hanno dormito sei ore o meno per notte nelle ultime due settimane. Tutto ciò che non faresti da ubriaco – come guidare, condurre una riunione di lavoro, crescere un bambino - non andrebbe fatto se si è svegli da diciannove ore, se si è dormito solo quattro ore la notte precedente o si è dormito meno di sei ore per notte per due settimane." Il sonno può anche essere un atto politico. Tricia Hersey, nell'ambito dell'iniziativa The Nap Ministry, organizza performance negli Stati Uniti in cui le persone con un colore della pelle diverso dal bianco dormono in luoghi pubblici. È una testimonianza e una critica allo sfruttamento dei corpi dei neri, ma anche un contrappeso al culto dell'efficienza e della produttività.

- Tricia Hershey organizza luoghi in spazi pubblici dove i neri e altre persone non bianche possono andare a riposare. Rifiuta di dimostrare la propria umanità per mezzo della produttività e fa qualcosa di così controverso nel capitalismo come dormire, con altre persone, per lo più sconosciute. Nel capitalismo, che è costruito sulla schiavitù e sul colonialismo, che tratta i corpi non bianchi come cose, come una risorsa, la cui rigenerazione non è necessaria, perché può essere semplicemente sostituita con un'altra. Sottolineo fortemente questa dimensione antirazzista e anticapitalista nel mio lavoro, l'ho imparata da Tricia Hershey e Audre Lorde. Inoltre, le esibizioni di The Nap Ministry vedono anche il dormire in pubblico, rinunciando al controllo, introducendo il riposare negli spazi pubblici, dove è considerato pigrizia (associata ai neri) ed espressione di inefficacia, come motivo di vergogna. Questo si intreccia con la mia pratica: ho notato che gli attivisti vengono e si sdraiano sui materassi con l'intenzione di partecipare attivamente parlando, ascoltando, riflettendo, ma spesso poi si addormentano perché si trovano in uno spazio dove nessuno vuole davvero niente da loro, qui possono partecipare alle attività proposte come desiderano, anche dormendo - aggiunge Sarata.

Il sonno fa parte del riposare. Tuttavia, “il riposo include anche il passaggio da un tipo di attività a un altro. L'energia mentale, come lo stress, ha un ciclo che oscilla dal focus su un'attività all'elaborazione e di nuovo al focus su un'attività. L'idea che si possa usare "determinazione" o "autocontrollo" per rimanere concentrati e produttivi ogni minuto di ogni giorno non è semplicemente errata, ma è negare l'evidenza e può danneggiare il cervello"- sottolineano Emily e Amelia Nagoski. Il 42% del tempo dedicato al riposo dovrebbe essere speso non solo dormendo, ma anche all'attività fisica, a pasti consapevoli, a conversazioni importanti e alla costruzione di relazioni, cose che ci rendono felici e danno significato alla nostra vita. Molti manuali per lo sviluppo personale e la gestione del tempo sottolineano che un buon riposo aumenta la nostra produttività e contribuisce a migliorare i nostri risultati. Tuttavia, questo non è sempre l'obiettivo. "È vero che il riposo ci rende più produttivi, in ultima analisi, e se questo è un argomento che ti aiuta a persuadere il tuo capo a darti più flessibilità, perfetto. Ma pensiamo che il riposo sia importante non perché ti rende più produttivo, ma perché ti rende più felice e più sano, meno scontroso e più creativo. Pensiamo che il riposo sia importante perché tu sei importante. Non sei qui per essere "produttivo". Sei qui per essere te stesso, per impegnarti per quel 'qualcosa di più', per muoverti nel mondo con fiducia e gioia. E per farlo, hai bisogno di riposo" - aggiungono le sorelle Nagoski.

- Il riposo è un diritto umano, non un motivo di vergogna. Il sonno è un'attività fisiologica necessaria, e la sua deprivazione è tortura, non espressione di potere - commenta Sarata.


L'attenzione come azione collettiva

Ma dove lo trovi il tempo per riposare se l'agenda è sempre più piena di anno in anno? È necessario rifiutare qualcosa.

- Il rifiuto è uno strumento fondamentale per prendersi cura di se stessi. Mi sono resa conto che ricevere tutti questi inviti a partecipare è estremamente piacevole, perché è un segno che le persone hanno bisogno di me e - ad essere onesti - porta benefici emotivi. Mi sento energizzata dall'attenzione e dall'essere apprezzata da qualcuno, soddisfa il mio bisogno interiore di essere notata. Inoltre, ognuna di queste proposte è interessante e, ovviamente, estremamente importante - Sarata ride.


Tempo e energie, tuttavia, sono risorse limitate. Sarata ha adottato due principi per decidere cosa rifiutare. Uno viene da Andrienne Marée Brown, che nel suo libro Pleasure Activism osserva che dire "no" lascia spazio a ciò a cui vogliamo dire "sì". Abbiamo davvero tempo per un altro incredibile progetto, o magari abbiamo bisogno di tempo per altre cose: riposo, amici, sport? Il secondo strumento è chiedersi: se questa cosa dovesse accadere domani, la vorrei comunaue sulla mia agenda? Altre tecniche di cura di se stessa che Sarata usa nella sua vita quotidiana includono l'eseguire compiti all'80% delle sue capacità e il limitazione i social media.

- L'80% è per me il livello al quale una determinata attività è da considerarsi completata. Posso sempre aggiungere qualcosina, ad esempio ad una presentazione per una riunione, magari leggendo un altro libro trovo un capitolo interessantissimo e penso di dover assolutamente aggiungere qualche concetto preso da li alla presentazione. Ma non è vero. Per anni il perfezionismo è stato il mio incubo: una paura estrema che se quello che sto facendo è meno del 150%, è una catastrofe. Molti dei miei colleghi mi davano dei feedback, che non ho preso sul serio per molto tempo, che il mio 100% su un'attività è già il 150% per altri. Così ho spostato il limite oltre il quale una cosa è pronta. Ho iniziato a lasciar andare prima e a lavorare sul perfezionismo.

Limitare i social media, d'altra parte, inizia con piccoli cambiamenti. Comprare una sveglia cosi da non portare il telefonino in camera. Usare piattaforme di comunicazione specifiche per ogni area, ad esempio limitare al minimo i contatti professionali su Facebook, in modo che rimanga legato solo o principalmente alla sfera privata. Disinstallare i social media dal tuo cellulare o almeno disabilitarne le notifiche.

Un'altra cosa che Sarata incoraggia a fare agli attivisti esausti è tornare su quell'attività in particolare che hanno abbandonato per prima quando hanno iniziato a impegnarsi intensamente nell'attivismo.

- Per qualcuno può essere il nuoto. O il ricamo. Il lavoro manuale è estremamente rigenerante, coinvolge altri sensi, un altro emisfero, il corpo e genera un senso di soddisfazione - ne senti immediatamente l'effetto. È lo stesso col vangare. Per alcune persone potrebbe essere una passeggiata, per altre la linoleografia. Non dico di darsi alla linoleografia per un'ora al giorno di punto in bianco, ma di provare, se possibile, a riprendere questa attività per 5-10 minuti.


Un tema ricorrente è anche il "non fare nulla" in contrasto alla tendenza a ridurre la nostra vita a soldi e like. Come sottolinea Odell: "C'è una sorta di far nulla che è necessario, alla fine dei conti, per fare qualcosa. Visto che la sovrastimolazione è diventata un dato di fatto, suggerisco di ripensare la #FOMO (acronimo inglese di Fear of Missing Out, che si riferisce alla paura di essere tagliati fuori, N.d.R) come #NOMO, la necessità di perdersi qualcosa o, se questo vi infastidisce, #NOSMO, la necessità di perdersi qualcosa qualche volta." Il fare nulla è necessario anche per ascoltare. Ascoltare con sincerità, profondità, vedere cosa c'è dentro e intorno a noi, sia in termini di persone che di ambiente - un elemento chiave nel riequilibrarsi. Odell ha trovato un elemento di equilibrio nel birdwatching. Sarata parla di camminare a piedi nudi, del contatto fisico con la natura circostante, del silenzio, della casa degli amici nella foresta dove lei diventa naturalmente più calma, più presente, più concentrata. La presenza e la concentrazione ci permettono di percepire un altro essere come Tu. Nel suo libro, Odell fa riferimento all'opera del filosofo Martin Buber, che "traccia una distinzione tra ciò che chiama Io-Esso e Io-Tu. Nell'Io-Esso, l'altro (una cosa o una persona) è un "esso" che esiste solo come strumento o mezzo per un fine, qualcosa di cui l'"Io" deve appropriarsi. La persona che conosce solo l'Io-Esso non incontrerà mai nulla al di fuori di sé perché non "incontra" veramente. (…) In contrasto all'Io-Esso, l'Io-Tu riconosce la singolarità e la condizione di parità dell'altro. In questa relazione, Io incontro "Te" nella tua pienezza, dandoti la mia totale attenzione; perché Io non ti percepisco né ti 'interpreto', il mondo si contrae in un momento di magica esclusività tra te e me". Nella relazione Io-Tu, costruita con un altro essere umano, con un uccello, con un albero, con la terra, con noi stessi, abbiamo la possibilità di essere autentici e di andare oltre agli schemi imposti dal capitalismo, dal patriarcato, dalla sindrome del donatore umano. Agendo all'interno di questi sistemi, prendersi cura di se stessi, contrastare il burnout e cercare un equilibrio saranno sempre destinati al fallimento in un modo o nell'altro. Ricostruire il sistema non è un compito facile e certamente non per un singolo individuo. Per questo abbiamo bisogno di un nuovo tipo di relazione, di ascolto, di legami, di una nuova comunità, su cui Sarata scrive: “Comunità non solo che lavorano, ossessionate dal dovere, non solo concentrate sul fare, ma anche sul celebrare e sul riposare, sul rigenerarsi e su prendersi cura l'una dell'altra, facendo di questo un compito comune".


 

Ulteriori informazioni su RegenerAkcja: https://www.facebook.com/regenerakcja


 

Zrealizowano w ramach stypendium Ministra Kultury i Dziedzictwa Narodowego


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