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Pedalare nella giusta direzione


 

Pedalare nella giusta direzione

DYNAMO

Bologna | Italy

 

Cos'è la Dynamo?

Simona Larghetti: Dynamo é la prima velostazione d’Italia, è un luogo di servizi legati alla mobilità ciclistica. Nasce come idea diversi anni fa, come spin-off di un’associazione che si chiama Salvaiciclisti-Bologna.

Dynamo è il luogo in cui si cerca di rendere la vita facile ai ciclisti urbani. Il che significa servizi, come noleggio, posteggio e riparazione. Ma anche informazione, che passa da cose molto semplici come imparare ad aggiustarsi la bici da soli, corsi - perché pensiamo che la pratica abbia la sua importanza e responsabilità nel creare utenti più consapevoli - a cose più ambiziose come discussioni, azioni di advocacy, spazio per le associazioni. Inoltre si cerca di dare lavoro alle persone che fanno questo in modo funzionale, è un progetto di impresa ed è un luogo di ritrovo di tutti quelli che vogliono contribuire all'introduzione di questo pensiero: cerchiamo di dare spazio alla cultura della mobilità e, di conseguenza, a una cultura della socialità, perché pensiamo che muoversi in bici è una scelta che va nella direzione di lasciare spazio alle persone.

Qual è la situazione dei ciclisti a Bologna?

Bologna è una città medio/piccola e con la bici in 15 minuti arrivi ovunque. Quando sono arrivata qua mi sono chiesta come mai non andassero tutti in bici. Mi sembrava strano. Poi hanno iniziato a dirmi: 'Stai attenta che qui te la rubano'. 'Il lucchetto che hai non va bene'. 'La rubano e poi la rivendono agli studenti.' 'E come mai gli studenti comprano le bici rubate?' 'Non gliene frega niente.' E anche questa cosa mi sembrava molto strana. Mi è stato offerto di aderire ad una campagna contro il mercato delle bici rubate e cosi mi sono unita a questa associazione universitaria che faceva varie attività di responsabilizzazione e che proponeva un progetto di studenti civici, cioè studenti che si prendono cura della città, e tra le altre cose c’era questa attività con le bici. Mi sono appassionata molto e ho iniziato a collaborare con loro anche su altri progetti. Poi sono andata per un periodo in Inghilterra per continuare il mio lavoro da filologa, ma mi mancava Bologna e anche questa cosa della bici, che per me rappresenta il rapporto con il territorio. Quindi sono tornata e ho reiniziato a collaborare con l’associazione. Nel frattempo sono andata a lavorare in una multinazionale. Durante questo periodo è emerso il movimento salvaciclisti, che si è propagato prima su facebook e poi con una campagna che è passata anche sui giornali. Già seguivo questo movimento a livello nazionale e mi interessava molto perché poneva la questione dei diritti. Perché devo morire solo perché vado in bicicletta? Perché non posso portare i miei figli a scuola in serenità perché ci sono delle regole che mi pongono ai margini e non mi proteggono? Inoltre qual è il modello di città a cui aspiriamo? Posti dove la gente vive o posti in cui la gente si sposta, tra l’altro in modo inefficiente. Si parla dei diritti dei ciclisti, o meglio, sul diritto alla mobilità. Chiunque può essere ciclista. Il diritto alla mobilità è un diritto che ancora non è riconosciuto e che ancora non ha una sua fisionomia chiara. E’ l’uso dello spazio pubblico. Salvaiciclisti nasce dal problema delle morti stradali, per arrivare a qualcosa di più complesso… definire il ruolo della mobilità nei cambiamenti sociali, economici e morali.

Insomma si è avviato un discorso più ampio sull’uso della bici che mi ha interessato molto. Ho deciso di provare a costruire un gruppo a Bologna che lavorasse su questi temi. Ho creato un evento su facebook, invitando chi era interessato a questo tema ad incontrarci in piazza. Questa cosa della piazza è durata un annetto. Ci incontravamo tutti i sabati per organizzare delle attività per coinvolgere le persone su questo tema. Da li è partita l’associazione. Era il 2012.

E dopo questi anni e tanti progressi, qual è il principale successo di questa iniziativa finora?

Sicuramente il fatto di aver cambiato la vita di alcune persone. Non so se siano tante o poche. Però quando faccio front-office mi capita praticamente ogni giorno di incontrare qualcuno che mi dice: 'Lo sai che ero uno che andava sempre in macchina e odiava le bici. Ero esaurito e incattivito dal traffico. Adesso da quando ci siete voi ho iniziato ad andare in bici e sono contentissimo'. Questo è ciò che è giusto fare e che è utile fare. Una volta che hai messo una persona nelle condizioni di vivere bene hai un potenziale alleato per il cambiamento.

E la sfida principale?

Ce ne sono due. Una al nostro interno e una all’esterno. Noi siamo una cooperativa sociale. Siamo partiti in sette e ora siamo molti di più. Diversi lavoratori assunti a contratto. Vogliamo dare una dignità professionale a quello che facciamo. Cioè costruire un progetto di impresa solido ed efficiente in cui non si perdano di vista i rapporti umani. E questo è molto difficile. Avendo lavorato in una grande azienda ed essendo ora dall’altra parte posso dire che le standardizzazioni e le procedure per eliminare la varietà dell’essere umano sono necessarie. Per quanto uno voglia essere sempre creativo, se ti arrivano 60 clienti in un’ora che vogliono parcheggiare la bici non puoi perdere tempo in chiacchiere, perché nel frattempo le altre 59 persone aspettano. Il nostro obbiettivo è quello di avere un progetto d’impresa in cui le persone si possano sentire realizzate e non schiacciate. E non è facile costruire un meccanismo che funzioni, avere una buona reputazione, essere affidabili, produttivi, garantire i diritti e contemporaneamente mantenere sempre il sorriso e ascoltare gli altri. E' una questione di qualità umana, bisogna essere molto evoluti umanamente perché a fare un impresa dove c’è uno che comanda e gli altri che obbediscono son buoni tutti. A fare il gruppo fricchettone in cui ognuno segue la sua ispirazione anche, però poi non si conclude nulla. La sfida è avere una modalità alternativa. Noi ci proviamo.

Al nostro esterno la sfida è che Dynamo diventi un modello replicabile. Funziona bene, il primo anno abbiamo parcheggiato 14000 biciclette. Dopo pochi mesi abbiamo recuperato l’investimento iniziale e abbiamo iniziato a darci gli stipendi. Quindi siamo più che soddisfatti. Vogliamo riuscire a far si che questa cosa si possa fare anche altrove in modo da creare un’abitudine nelle persone, una cultura. Può funzionare solo se circola.

E tu come hai iniziato? Hai sempre avuto la passione per la bici?

In realtà è stata una cosa molto voluta ma che non ha particolari radici. Io vengo da un piccolo paese nell’appennino. Ho imparato ad andare in bici come tutti i bambini ma nel mio territorio c’è molta collina e le distanze sono lunghe, nessuno usa la bici per spostarsi. Quindi non fa parte della mia cultura. Però c’è stata una cosa che mi ha un po’ segnata. Quando facevo le medie volevo andare a studiare in un liceo classico e il più vicino era a 60 km. Quando i miei genitori mi chiesero cosa volessi fare alle superiori si allarmarono perché non c’era un mezzo pubblico per raggiungere la scuola. C’erano una serie di servizi di trasporto scolastico che però non collegavano i due paesi direttamente. Per andare a scuola mi sarei dovuta svegliare alle 5 del mattino, cambiare diverse volte e arrivare alle 7, un’ora prima dell’inizio delle lezioni. Mia madre disse: 'No, il tuo diritto allo studio sancisce che tu possa scegliere la scuola che ritieni migliore per te, quindi adesso dobbiamo costringere l’azienda di trasporto pubblico a mettere una linea che colleghi meglio quest’aerea con la città'. Chiamò le autolinee, cominciò a chiedere ai sindaci dei paesi della zona, raccolse le firme dei genitori dei bambini che potevano essere potenzialmente interessati e alla fine sollevò un tale polverone che si videro costretti ad instaurare questa linea, la quale esiste tutt’oggi ed è sempre strapiena perché i ragazzi essendoci la linea hanno iniziato a iscriversi a queste scuole che prima non tenevano neanche in considerazione. Questa vicenda mi ha formato sul fatto che sia giusto far valere i propri diritti, ovviamente in modo pacifico, cercando di coinvolgere le persone e di renderle consapevoli. Quello che mi è stato insegnato è che se una cosa non è giusta bisogna provare a cambiarla.

E per cambiare le cose, quali caratteristiche sono importanti per un changemaker?

Attraverso la bici ho capito che per pianificare un cambiamento prima devi provarlo su di te. Se funziona su di te devi provarlo sui tuoi amici. Se funziona anche li allora hai trovato la chiave. Nelle relazioni quotidiane trovi la risposta ai tuoi problemi.

La prima cosa da fare è parlarne con tutti, cercare di coinvolgere quante più persone possibile su quello che stai facendo raccogliendo in modo anche critico e onesto i feedback che ti arrivano. Devi interessarti a quello che pensano gli altri. Condividere il più possibile. La paura che ti rubino le idee è patetica. Le idee sono di tutti. La forza di un’idea non è l’originalità. È la capacità di tradurla in fatti. Quindi se ti senti capace di avviare un progetto la prima cosa da fare e condividerlo con quante più persone possibile. I numeri sono sempre una forza. Più persone la pensano come te o comunque hanno dato un contributo, più il tuo progetto è solido. Bisogna essere sempre attenti alle persone. Quest’attenzione poi si traduce in ascolto da parte degli altri nei tuoi confronti.

 
 

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